Genova

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  Per conoscere Genova serve il naso, prima degli occhi. Nei vicoli stretti e un po' bui dominano gli odori delle cucine, le più disparate, ti accoglie il basilico, ti punge l'aglio, ti sfida il curry. Ti aggrediscono, a sorpresa ma non troppo, i sentori sgradevoli dai cassonetti, dagli angoli usati come vespasiani, dai cornicioni imbrattati dal guano dei piccioni. Ti consolano i profumi dalle botteghe antiche, di spezie, di saponi artigianali, di caffè, ricordo di antiche rotte commerciali che qui convergevano per la nostra prosperità e per la nostra cultura.

A questo punto puoi aprire gli occhi, e se è una bella giornata di giugno o di dicembre (qui sono i mesi più belli) vedrai una luce cristallina dipingere campanili, antiche pietre bianche e nere, persiane verdi vere e dipinte, un po' cadenti, vasi di fiori, bassorilievi, edicole votive preziose e, in fondo a un fiume di mattoni rossi o di scalini grigi, il mare.








Puoi anche ascoltare una babele di lingue e di dialetti, percussioni africane e quartetti d'archi che provano e racimolano spiccioli per la strada. La colonna sonora di Genova è Fabrizio De André, ma puoi trovare Bruno Lauzi, Ivano Fossati, Gino Paoli.








La cucina genovese non può essere giudicata da chi vive qui. Può essere povera e sontuosa, sa di aglio, di olio, stupisce con poco, propone pesci e torte di verdure, farinata e pesto, ma non puoi andare via da Genova senza aver assaggiato la focaccia di un forno come si deve, mangiata calda, camminando per la strada.














Al tatto la mia città è ruvida, una ringhiera arrugginita sul lungomare, la salsedine appiccicosa tra i capelli dopo una serata sulla spiaggia a Boccadasse, i suoi sassi polverosi.


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